La testimonianza di Angela

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Casa Esperança di Catembe è la sede del progetto a cui ho preso parte a Maputo. Una casa di accoglienza che ospita ragazzi fino al compimento dei 17 anni, bambini che per varie ragioni si ritrovano a vivere in strada e che vengono indirizzati in centri come questo in attesa di trovare qualche parente che possa occuparsi di loro, questo ovviamente nel migliore dei casi. In molti casi, invece, sono le stesse famiglie a indirizzare i figli verso la capitale per trovare un lavoro con la speranza di un riscatto economico. Altri ancora preferiscono scappare da situazioni domestiche complicate.

Il tema famiglia, in Mozambico, è caratterizzato da una frammentazione molto forte che crea condizioni instabili: alla morte di uno dei coniugi l’altro facilmente trova un nuovo consorte che non accetta i figli della relazione precedente. A questo punto il bambino, se ha altri parenti, può essere lasciato con loro, oppure con un altro conoscente, ma non è detto che abbiamo le possibilità economiche per prendersi cura di lui. Dopo l’arrivo al Centro, il ritorno in famiglia è piuttosto difficile a causa delle grandi difficoltà nel rintracciare la famiglia o un parente prossimo, quando esiste, aggravata dal fatto che nella maggior parte dei casi non ci sono le condizioni e gli equilibri necessari per ristabilire la convivenza con il bambino. L’indipendenza alla quale sono, sin da subito, chiamati a rispondere i ragazzi, li spinge a cercare altrove i mezzi per sopravvivere. Spesso la ricerca fa incrociare le loro strade con figure adulte i cui pensieri non combaciano con quelli di un genitore, almeno per come siamo abituati noi ad intendere la figura genitoriale. Tra le strade di Maputo, il dramma occupazionale infantile è molto forte: i bambini, fin dai 10/11 anni, in strada vendono qualsiasi cosa, dagli snack ai semafori, alle sigarette all’entrata dei giardini.

Dopo il mio arrivo qui nel Centro di Catembe, non è passato molto tempo per capire che quelli che ai miei occhi erano bambini, qui sono considerati solo adulti più piccoli. La loro forte indipendenza e le esperienze che hanno alle spalle li porta ad essere dei maestri nell’arte di “arrangiarsi” in qualsiasi situazione. Ho visto accendere fuochi per cucinare in pochissimi minuti anche sotto la pioggia, alzarsi nel cuore della notte per pulire gli spazi al di fuori della casa, perché le normali ore del giorno non sono sufficienti per fare tutto. Penso che sarebbero in grado di sopravvivere in molte situazioni, quello che hanno vissuto prima di essere qui, oggi li fa circondare di una corazza che li rende forti con il mondo nel quale sono chiamati a vivere. 

Trattandosi di una casa di accoglienza, per molti il Centro rappresenta un transito momentaneo, in attesa che l’istituzione rintracci la famiglia possono fermarsi qui per alcuni mesi, per altri di loro questo centro rappresenta da sempre la loro casa, dal momento in cui sono stati abbandonati alla nascita o nei primissimi anni di vita. In questo ultimo gruppo, i rapporti solidali sono abbastanza forti, cercano di aiutarsi l’uno con l’altro, come ad esempio sorvegliando il piatto di un amico se nel momento del pranzo si trova a scuola. Generalmente le dinamiche di gruppo si basano sulla prestanza fisica, soprattutto tra i ragazzi bisogna dimostrare di essere forti e in grado di contribuire al lavoro fisico. A volte ho l’impressione che neanche loro si considerino bambini, forse perché sono cresciuti in una società nella quale non si ha tempo per essere piccoli, non c’è spazio per essere indifesi. Molti dei diritti, come quello all’istruzione o al gioco, che in occidente diamo per scontati, qui vengono volentieri ignorati o, nel migliore dei casi, messi in secondo piano.

E’ difficile a volte credere che la gestione di queste realtà sia una priorità dello Stato. L’istituzione ha difficoltà nel reperire i mezzi economici per sostenere le attività di queste strutture, e spesso i pochi fondi disponibili, passando tra tante mani, non arrivano fino ai bambini e ragazzi del Centro, che avrebbero bisogno di una migliore alimentazione e di più attenzioni e cure per avere maggiore tempo per crescere. Non esiste il privilegio di essere bambini, e anche il personale del Centro non ha le conoscenze e i mezzi per dare agli ospiti della struttura maggiore tempo per vivere l’infanzia e accompagnarli negli studi e nella scoperta di sé: anche loro stessi sono cresciuti in una realtà che è sempre andata molto veloce e in cui non c’era tempo per essere indifesi. Iniziare a dare continuità nel lavoro all’interno del Centro e collaborare sempre più a stretto contatto con le istituzioni pubbliche è l’unico modo per interrompere questo circolo vizioso.

La mancanza di acqua corrente, di energia e di cibo sufficiente sono all’ordine del giorno. Il piatto tipico prevede “xima”, un preparato di farina di mais e acqua, molto simile a una polenta bianca, e alcune parti, come la sola testa di “carapau”, pesce molto comune nella zona. L’organizzazione della cucina, che include la preparazione del cibo e la pulizia delle stoviglie, è interamente affidata ai ragazzi, affiancati dalla presenza di una “maman” presente sette giorni su sette. Qui è facile a 10 anni essere già esperto nella cucina tipica, sapersi destreggiare tra tagli, quantità e cotture. Anche l’aspetto organizzativo della casa è affidato ai bambini e ai ragazzi: sistemazione dei letti, pulizia delle camere, dei bagni, raccolta di acqua necessaria per cucinare e lavaggio a mano degli indumenti.  

Al nostro arrivo, la primissima reazione alle nostre attenzioni nei loro confronti è stata un po’ di diffidenza, che fortunatamente il tempo ha sciolto, ma che è indicativa di come finora le attenzioni fossero per loro qualcosa di anomalo, addirittura minaccioso. Le attenzioni che normalmente ricevono dal resto del personale hanno per lo più connotazioni autoritarie, e in generale gli approcci fisici non sono mai legati a manifestazioni di affetto. La gestione di tanti bambini e ragazzi e la mancanza di formazione specifica, porta il personale a gestire in modo molto rigido tutti gli aspetti e momenti all’interno del Centro.

La vita a Catembe ha ridimensionato di molto la mia percezione dei problemi e degli ostacoli. Nonostante le storie di questi ragazzi siano spesso estremamente drammatiche, con una conseguente crescita precoce, ciò non intacca la loro forte resilienza, la loro grande capacità di sopravvivere alle avversità. Il loro modo di essere è una lezione preziosa per me che mi ha permesso di pensare a quanto la possibilità di scegliere il proprio percorso sia una cosa tutt’altro che scontata. Il percorso per la soluzione di questa situazione passa in primis per l’istruzione e la conoscenza dei propri diritti. Gran parte di questo problema nasce dalla mancanza di conoscenza delle alternative, il nostro approccio ai bambini, per esempio, ha incontrato non solo la diffidenza dei bambini ma anche e soprattutto del personale che, essendo cresciuto nelle medesime condizioni, fatica a comprendere il senso del nostro approccio meno autoritario e più emotivo. 

Cosa portiamo noi a questa realtà? Noi stessi, la nostra mentalità frutto di un modello educativo differente, la consapevolezza dei diritti che questi bambini hanno ma non sanno di avere, questo è il seme che speriamo di piantare.”